LA SINDROME DI STOCCOLMA TRA FALSI MITI E VERITÁ
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LA SINDROME DI STOCCOLMA TRA FALSI MITI E VERITÁ


In quest’ultima settimana sui social media tutti parlano della sindrome di Stoccolma in relazione a Silvia Romano, la cooperante sequestrata in Kenya nel 2018 e liberata qualche giorno fa.

No, non ti preoccupare: non stai per leggere l’ennesimo articolo su questa vicenda.

Parlare di geopolitica non rientra tra le mie competenze e lascio tutte le valutazioni del caso agli esperti del settore.

Il mio intento, qui, è usare le mie conoscenze in ambito psicologico per fornirti informazioni scientifiche su questa sindrome, così che tu possa districarti nella marea di dati che circolano in rete sull’argomento.

Innanzitutto, perché si chiama sindrome di Stoccolma?

Il nome, creato dallo psichiatra N. Bejerot, ha origine da una rapina avvenuta in una banca di Stoccolma nel 1973, nella quale due criminali tennero in ostaggio quattro dipendenti per alcuni giorni. Al temine dell’assedio, gli ostaggi manifestarono chiari segni di un legame affettivo con i rapitori, al punto da giustificarli e rifiutarsi di collaborare con la polizia.

Questo comportamento venne spiegato dagli psichiatri dicendo che le vittime avevano sviluppato un senso di riconoscenza verso i criminali perché non li avevano uccisi.

In tempi più recenti questo termine è stato usato per casi di sequestro di singoli individui, in cui gli ostaggi hanno manifestato atteggiamenti simili a quelli del caso di Stoccolma.

Probabilmente le reazioni di queste persone ti appaiano incomprensibili; in realtà sono motivate da un meccanismo psicologico ben preciso.

Prima di parlare di questo, però, vediamo insieme in cosa consiste questa sindrome.

Si tratta di una particolare condizione di abuso nella quale una persona – il carnefice – gode di una posizione di potere rispetta ad un’altra – la vittima.

Quest’ultima, che subisce violenze fisiche e/o psicologiche, sviluppa un meccanismo di difesa che la porta a legarsi emotivamente al suo persecutore.

Benché il termine “sindrome di Stoccolma” venga usato dai mass media principalmente nei casi di rapimenti, è evidente che questa sindrome può caratterizzare anche le situazioni di abuso tra partner.

Torniamo però alla dinamica psicologica che sta alla base delle reazioni delle vittime: com’è possibile che si leghino al carnefice?

Si tratta di una strategia mentale attuata per sopravvivere ad un’esperienza che altrimenti sarebbe distruttiva: quando la vittima si rende conto che la sua vita è nelle mani del carnefice, instaura con lui un legame di attaccamento totalizzante, credendo così di evitare la morte, fisica o psicologica.

A questo punto dell’articolo, siamo in grado di dire se Silvia soffre di questa sindrome? La risposta è no.

Questo forse ti deluderà, ma la verità è che solo un professionista della salute mentale che può venire in contatto diretto con lei e che può fare una valutazione clinica sulla base di colloqui ripetuti, può dirlo: la diagnosi psicologica richiede non solo competenze, ma anche

condizioni specifiche.

Nel caso poi della sindrome di Stoccolma, la questione è complicata dal fatto che, non trattandosi di un disturbo mentale, non ci sono criteri approvati dalla comunità scientifica a cui fare riferimento per la diagnosi.

Quindi, come si fa a dire se una persona ne soffre oppure no? Le ricerche finora hanno individuato quattro indicatori che si presentano simultaneamente nelle situazioni in cui le vittime di abuso sviluppano questa sindrome.

Vediamoli insieme, differenziando i casi di sequestro da quelli relativi alle relazioni patologiche tra partner.

1. Senso di minaccia alla propria incolumità fisica o psicologica Il carnefice convince la vittima che le minacce di violenza sono realistiche e questo la fa regredire ad uno stadio infantile: nei casi di sequestro, ad esempio mutilando la vittima; nei casi di relazione tra partner, ad esempio rompendo oggetti cari alla vittima o facendo del male al suo animale domestico.

2. Piccoli gesti di gentilezza da parte dell’abusante Il carnefice manipola psicologicamente la vittima compiendo qualche azione benevola: nei casi di sequestro, portando ad esempio da bere e da mangiare; nei casi di relazione tra partner, facendo ad esempio un regalo o concedendo qualche minima libertà.

Questo induce la vittima a credere che la situazione possa cambiare e la porta a sviluppare un senso di gratitudine. A volte l’abusante può condividere con la vittima suoi traumi infantili, così da indurle un sentimento di empatia, fino ad arrivare a giustificare le violenze.

3. Isolamento Può trattarsi di isolamento fisico, come avviene nei sequestri, in cui il carnefice impedisce fisicamente alla vittima di vedere altre persone.

Ma può trattarsi anche di isolamento mentale, come accade nelle relazioni tra partner. In questi casi l’abusante convince la vittima a non frequentare le persone a lei care e a non fidarsi di loro. Quando la vittima trasgredisce, il ritorno dal carnefice sarà caratterizzato dagli abusi. Per evitare che le minacce si realizzino, alla vittima non resta che assumere il punto di vista del carnefice.

4. Impossibilità di fuga Nei casi di sequestro, il fatto che la vittima creda che sia impossibile fuggire è motivato dalle condizioni ambientali.

Nelle relazioni tra partner, invece, il carnefice riesce a indurre nella vittima la convinzione che non è possibile fuggire attuando dei ricatti, come ad esempio la diffusione di immagini compromettenti, la minaccia di uccidersi o di uccidere qualcuno caro alla vittima.

Come si può guarire dalla sindrome di Stoccolma?

Anche se non si tratta di un disturbo mentale ed è spesso nominata a sproposito dai media,

la sindrome di Stoccolma è una condizione non funzionale al benessere della persona, che può avere esiti drammatici.

È quindi molto importante che la persona si rivolga ad un terapeuta specializzato nell’elaborazione dei traumi e nella cura della dipendenza affettiva, così da poter riappropriarsi della propria vita.

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